Fagiolini pelandroni: un tuffo nella tradizione ligure
Piatti, maculati, poco profumati da crudi ma dolci e saporiti non appena lessati o scottati in padella: che il “pelandrone non sia un fagiolino come gli altri lo si capisce subito.
Si racconta che nei vecchi mercati i verdurai, fossero soliti grdare:
“Ma che belli pellandronetti, piggéveli (pigliateveli) donne!”, e più di comare rispondesse sagace: “Tegnìveli: mi n’ò za abàsta de me màiu” (Teneteveli, io ne ho già abbastanza di mio marito!).
Non si sa con certezza da dove derivi il suo nome, secondo alcuni potrebbe riferirsi all’assenza di filamento nel bacello esterno, che permette di cuocerli senza il noioso procedimento dell’eliminazione del filamento sesso, da qui “fagiolini per pelandroni (pigri)”. I “pelandroni” sono coltivati in tutta la Liguria di ponente in piccoli appezzamenti ed in due modalità differenti: a cespuglio e a muro. La seconda tipologia di coltivazione, molto tradizionale ma oggi poco diffusa, sfrutta le caratteristiche rampicanti del fagiolino e ne permette una maggiore facilità di raccolta. Il modo migliore per cuocerli è il più semplice: scottati o al vapore, conditi con un filo d’olio extravergine d’oliva ed un poco di sale. Uno dei piatti più antichi della tradizione genovese è lo Sčiattamàiu, letteralmente “schiattamarito”, preparato con fagiolini “pelandroni”, che veniva mangiato a sčiattapànsa (a crepapelle), rischiando di far morire per indigestione il coniuge (di qui la derivazione del nome del piatto). Si tratta di un polpettone che veniva consumato sia tiepido che freddo, ideale ancora oggi per cene estive, comodo da portare in spiaggia o in barca.